Pierfrancesco Favino, Venezia e la Coppa Volpi: 88 anni di trionfi (e di polemiche) all’italiana

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“Un maestro mi ha detto che quando si gira un film è come creare una stella, e voglio dedicare questo premio a tutte le stelle, ai milioni di schermi che accoglieranno le stelle e agli occhi che brilleranno nel buio.”

 

Lo scorso 12 settembre sul palco della 77esima edizione del più prestigioso e del più antico Festival del Cinema, ovvero Venezia, un emozionatissimo Pierfrancesco Favino regala queste parole alla platea, pronta ad applaudirlo. Ha appena ricevuto la Coppa Volpi, come miglior interprete maschile per il film Padrenostro. Quella Coppa Volpi, che è, insieme al Leone d’oro come miglior film, il simbolo della Mostra del Cinema di Venezia.

Un Festival che affonda le sue radici indietro nel tempo, a quel 1932, destinato a lasciare un’impronta indelebile nella storia del cinema. Quell’anno alla Mostra non si assegnarono premi, ma fu l’edizione che lanciò nel firmamento del grande cinema la figura di Vittorio De Sica, che sarà capace qualche anno dopo di incantare il mondo con i suoi capolavori neorealisti. Il film più acclamato fu Gli uomini, che mascalzoni!, che aveva proprio l’attore ciociaro come stella più acclamata. Risale a due e tre anni dopo, ovvero al 1934 e 1935, l’istituzione dei premi cinematografici legati al Festival, destinati poi a rimanere nella memoria collettiva. La storia dei premi strettamente attoriali, è riconducibile alla creazione della Coppa Volpi, che tanto al maschile, quanto al femminile, rappresenta il premio come migliori interpreti della kermesse internazionale. Il riconoscimento deve il suo nome al conte Giuseppe Volpi, presidente della Biennale di Venezia e “padre” della Mostra del Cinema.schermata-2020-09-13-alle-10-58-14

Molto spesso tale prestigioso premio, è stato assegnato ad attrici ed attori nostrani, ed hanno rappresentato di conseguenza, vette dell’arte cinematografica, in grado di rendere unico ed acclamato il cinema italiano. La prima donna ad ottenere la Coppa Volpi come migliore interprete femminile sarà Anna Magnani nel 1947 per L’onorevole Angelina, alla quale seguirà 11 anni dopo Sophia Loren per Orchidea nera. E poi tra le altre troviamo Valeria Golino, unica attrice ad essersi aggiudicata il riconoscimento per ben due volte a distanza di 29 anni l’uno dall’altro: nel 1986 per Storia d’amore e nel 2015 con Per amor vostro. Completano il quadro, Laura Betti nel 1968 per Teorema; Sandra Ceccarelli nel 2001 per Luce dei miei occhi; Giovanna Mezzogiorno nel 2005 per La bestia nel cuore; Elena Cotta nel 2013 per Via Castellana Bandiera; e Alba Rohrwacher per Hungry Hearts.

Al maschile la Coppa Volpi è stata assegnata per 11 volte ad interpreti italiani, con lo squarcio di poesia dell’ex aequo a Marcello Mastroianni e Massimo Troisi per la memorabile interpretazione di un padre e di un figlio che cercano di ricostruire il loro rapporto, nel film di Ettore Scola, Che ora è? (1989). Il primo riconoscimento “italiano” fu attribuito a Ermete Zacconi nel lontano 1941 per Don Buonaparte, al quale seguì l’anno seguente Fosco Giachetti per Bengasi. Si dovettero poi aspettare ben 44 anni per ritrovare un attore italiano vincitore a Venezia. Fu però, probabilmente l’edizione più discussa, più travagliata e più contestata. Quella del 1986 è passata alla storia come l’edizione dello scippo perpetuato ai danni del grande Walter Chiari. Si racconta che quella Coppa Volpi fosse stata già assegnata all’attore pugliese, per la commovente interpretazione di Romance, proprio quell’anno in concorso a Venezia. Ingerenze politiche ancora misteriose e mai del tutto chiarite, portarono ad assegnare il premio, a sorpresa a Carlo Delle Piane per Regalo di Natale; mentre Walter dovette “accontentarsi” del Premio Pasinetti, come miglior attore della kermesse, assegnato dal Sindacato Nazionale dei Giornalisti cinematografici italiani. Un premio legato alla Mostra, ma collaterale, che non riuscì a coprire l’amarezza per quel misterioso scippo. Alla notizia che il premio non sarebbe stato assegnato a Walter Chiari, in sala si levarono una bordata di fischi senza precedenti, con i fotografi ufficiali della Mostra del Cinema, che per protesta posero le loro macchine fotografiche in terra.

https://www.youtube.com/watch?v=7zOEehgBE9g

Dopo quella edizione scandalo e dopo il già citato ex aequo di Marcello Mastroianni e Massimo Troisi, nel 1993 troviamo Fabrizio Bentivoglio vincitore per Un’anima divisa in due; Luigi Lo Cascio nel 2001 per Luce dei miei occhi; Stefano Accorsi nel 2002 per Un viaggio chiamato amore; Silvio Orlando nel 2008 per Il papà di Giovanna; Luca Marinelli nel 2019 per Martin Eden; ed infine il già celebrato trionfo di Pierfrancesco Favino nel 2020 per Padrenostro.

Il Festival di Venezia, insomma, nonostante le dovute rivoluzioni tecnologiche ed organizzative, alle quali ha dovuto ricorrere nella sua evoluzione, è più fresco e vivo che mai. Come ogni anno e come ogni kermesse, anche quella attuale porta via una striscia di polemiche sui nomi dei vincitori. Quest’anno tocca al Leone d’oro, assegnato, a detta di molti a sorpresa ed anche ingiustamente a Nomadland, di Chloè Zhao. A tutto ciò c’è però da dire, come la storia dei Festival è piena di giudizi contestati e sono stati spesso anche sindacabili. In quanto composti da un ristretto numero di “esperti”, i Festival vivono di momenti storico-sociali, di ingerenze politiche, di brevi stagioni e spesso delle mode del momento.

Si pensi a quanto ha dovuto penare il grande Ugo Tognazzi, questa volta a Cannes, per poter ottenere la tanto agognata Palma d’oro come miglior interprete maschile. Quel premio che ottenne solo nel 1982 per La tragedia di un uomo ridicolo, ma che egli stesso giudicò tardivo. Ogni volta, infatti, negli anni precedenti era andato lì lì per vincerlo, ma ogni volta era rimasto puntualmente con un pugno di mosche in mano. Una volta perché i giurati avevano deciso di assegnarlo a un attore brasiliano e dunque alla cinematografia emergente; un’altra perché i francesi avevano boicottato un film di Marco Ferreri, dal titolo La donna scimmia, che aveva come protagonista proprio Tognazzi; e un’altra volta ancora perché Ingrid Bergman, che presiedeva la giuria, aveva minacciato di andarsene se fosse stata concessa una qualsiasi gratifica alla Grande Abbuffata, un film a suo dire indecente.

Un piccolo esempio, dunque, di come i festival sentano e vivano quello che è il “momento”, anche in considerazione dell’esigua composizione della giuria, quasi sempre dai 7 ai 9 elementi. Viceversa le giurie dei grossi premi internazionali, che sono diverse per struttura dai Festival (Nastri d’Argento, David di Donatello, Oscar, Bafta, Golden Globe…) hanno una composizione mai inferiore alle 1000 unità, quindi con un campione molto più realistico dei gusti e delle inclinazioni del pubblico e molto meno controllati politicamente.

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