Nessuno ne è immune. Ne siamo sempre più testimoni. E possiamo esserne potenzialmente tutti vittima. Cos’è?
La risposta a questo indovinello è “l’odio social(e)”.
Fateci caso, andate a farvi un giro sotto una qualsiasi notizia pubblicata sui social da un profilo del Corriere della Sera, de La Repubblica o di tanti altri, e noterete che la maggior parte dei commenti hanno – come si definisce in gergo – un sentiment negativo.
Tecnicismi a parte, è davvero troppo facile trovare nei commenti un certo grado di violenza, opinioni sprezzanti e sentenze passate in giudicato dal tribunale dei social. Tutto può essere scritto, sembra non ci siano limiti.
Per sgomberare il campo da ogni dubbio non mi riferisco, ovviamente, alle critiche – anche dure – sacrosante. Ma a quei commenti che hanno il solo obiettivo di denigrare, offendere, affossare.
Il tutto avviene con una naturalezza disarmante, complice uno schermo che da un lato ci avvicina a milioni di persone e, dall’altro, ci allontana empaticamente dalle stesse. Ci sentiamo in diritto di poter dire qualsiasi cosa senza valutarne la portata e le conseguenze. Giudizi che mai avremmo il coraggio di pronunciare nei confronti di un’altra persona al bar e nella vita di tutti i giorni, ma che sui social ci permettiamo di dare senza pensarci troppo. Anzi, magari pensando proprio che sia un’azione legittima.
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E’ davvero troppo facile trovare nei commenti un certo grado di violenza, opinioni sprezzanti e sentenze passate in giudicato dal tribunale dei social. Tutto può essere scritto, sembra non ci siano limiti.
Ma di chi è la responsabilità?
Riconoscimento dell’altro e consapevolezza. Due aspetti imprescindibili che abbiamo un po’ perso e di cui si sente la mancanza.
Attenzione, all’equivoco dietro l’angolo. Non sono i social media ad essere “brutti e cattivi”, siamo noi che lo siamo diventati o, peggio, lo siamo sempre stati. Perché se è vero che le dinamiche social tendono alla polarizzazione e seguono i nostri interessi per farci restare il maggior tempo possibile sulla piattaforma, siamo sempre noi che possiamo scegliere come utilizzarli e con che grado di consapevolezza.
Possiamo, per esempio, spingerci addirittura a pensare che si possono avere idee diverse e non per questo doverle per forza denigrare. Possiamo anche essere d’accordo che se una persona posta una sua fotografia non siamo legittimati a scrivere di tutto e a giudicarla. E possiamo persino aprirci all’altro, al confronto, alla condivisione, sino ad arrivare all’incontro.
Messa in questi termini, i social media diventano un luogo molto più vivibile. E ci accorgiamo che un altro modo – o mondo – è possibile quando ci troviamo a navigare su profili che parlano di letteratura, filosofia, ma anche di intelligenza artificiale o marketing. Quale che sia l’argomento di discussione sono sempre le persone che lo trattano e quelle che lo seguono a fare le differenza. Bravi i primi a creare una community positiva, bravi i secondi a mantenere un ambiente sano.
Stesso mezzo – i social media -, risultati diversi.
E allora credere che la responsabilità dell’odio social(e), a cui purtroppo ci siamo anche abituati, sia dei social media diventa solo un bell’alibi che ci deresponsabilizza. Ma niente di più.
Come dicevo, i problemi risiedono altrove ed hanno altri nomi. Tutto parte da noi. Facciamo la nostra parte.
Ivan Zorico