Neet Generation – L’editoriale di Ivan Zorico

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Neet Generation - L'editoriale di Ivan Zorico

Diamo i numeri.

Nel 2023 in Italia, il 16,1% dei giovani tra i 15 e i 29 anni non lavorava, non studiava e non seguiva alcun percorso di formazione. Percentuale che cresce in riferimento alle femmine (17,8%) rispetto ai maschi (14,4%). Anche a livello geografico le differenze sono sostanziali: con il dato relativo ai giovani inoccupati e che non studiano che registra l’11,2% nel Centro-Nord contro il 24,7% nel Mezzogiorno, più del doppio (fonte: Istat). 

Parliamo della cosiddetta “Generazione NEET” (Not in Education, Employment or Training), ossia una parte rilevante della nostra società che fatica a trovare il proprio posto nel mondo. Proprio in un’età in cui, quel mondo, dovrebbe essere alla loro diretta portata.

Numeri. Percentuali. Statistiche. Ma anche appellativi: Generazione zeta, Nativi digitali e, appunto (in molti casi) Generazione Neet.

Ma dietro ogni punto percentuale e dietro alle varie denominazioni, dovremmo fare lo sforzo(?) di ricordarci che ci sono racconti, visi, persone, cugini, amici, conoscenti e, in qualche caso, noi stessi. Insomma persone reali che, fuori dai grafici, hanno aspettative disattese, sogni ancora impacchettati e una storia ancora tutta da scrivere.

C'è chi si è laureato, ma si è perso nel labirinto del “e ora?”. Chi ha mollato tutto perché non si sentiva all’altezza (dall’Istat: “nel 2023, la percentuale di giovani con un’età compresa tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato precocemente gli studi è pari a 10,5%. Nel Mezzogiorno, l’incidenza raggiunge il 14,6%”). Chi si è sfiduciato per mancanza di opportunità e chi non riesce a immaginare un futuro. E non si tratta solo di una questione economica o occupazionale: è qualcosa di più profondo, quasi esistenziale.

Lo dico anche per esperienza personale, da ex giovane nato e cresciuto nel Sud.

Un Sud nel quale ci si ritrova a fare i conti, ancora oggi, con un tessuto socio-economico fragile e una mobilità sociale lenta, se non ferma. Lì, dove i numeri sono più impietosi come abbiamo appena visto, uscire dall’università o da un istituto scolastico senza una mappa, delle coordinate, un indirizzo, un contesto fertile, è molto facile. 

Scopri il nuovo numero: "Neet Generation"

La chiamano Generazione NEET” (Not in Education, Employment or Training), ossia una parte rilevante della nostra società troppo spesso dimenticata. Mentre dovremmo ricordarci che, dietro ad una denominazione, ci sono persone reali che, fuori dalle statistiche, hanno aspettative disattese, sogni ancora impacchettati e una storia ancora tutta da scrivere.

Ci si ritrova con tante energie da investire, la voglia di fare o il desiderio di affermarsi, ma pochi canali in cui incanalare tutto ciò. E allora, magari, ci si fa prendere dall’ansia, dalla diffidenza. E la volontà di esserci, qui e ora, si può trasformare in disaffezione. 

Eppure, parliamo di una generazione che, oggi più che mai, avrebbe tutto il potenziale per cambiare le cose. Che ha strumenti nuovi, sensibilità nuove e una familiarità unica con le tecnologie e le dinamiche digitali. Ma, senza un ecosistema includente, diventa tutto più difficile.

Probabilmente occorrerebbe fare tutti un passo in avanti, verso di loro. A partire da un cambio di comunicazione.

Tornando agli appellativi, i giovani, oltre a dover fare i conti con l’immobilismo, con un potere d’acquisto sempre più ridotto, con lo sgretolarsi del mito del posto fisso e con l’idea che la pensione sarà per loro solo una chimera, in questi ultimi anni sono stati anche chiamati bamboccioni, sfigati e choosy (ossia, schizzinosi). A conferma che l’Italia non è un Paese per giovani, come già scrissi nel settembre del 2018 (un’era geologica fa).

Probabilmente il nostro Paese non sa che farsene dei giovani. Già sono pochi (leggi inverno demografico), hanno perso i loro tratti tipici (ossia assomigliano più ai loro padri o nonni vivendo in un Paese post-storico) e allora meglio far finta che non ci siano proprio, si penserà. 

In questo stallo, occorre iniziare a parlare ai ragazzi e non dei ragazzi. 

Loro non hanno bisogno di essere categorizzati, ma supportati. Hanno idee, ambizioni, propositi, paure. Dovremmo dar voce alle loro storie, ai loro tentativi e anche ai loro insuccessi. Raccontare le esperienze di chi ce l’ha fatta, senza retorica, ma con concretezza. Coltivare nuovi immaginari, nuovi orizzonti. Tendere una mano. Dare fiducia. 

Come?

Agevolando percorsi di coaching e mentoring, progetti locali che mettano in relazione giovani e territorio, occasioni di sperimentazione, anche piccole, ma che aprano nuove strade. Insegnare l’autodeterminazione: obiettivo primario della scuola, ma anche delle famiglie e delle istituzioni. In un mondo che cambia velocemente, e con sfide tecnologiche destinate a riscrivere quanto oggi conosciamo, non c’è bisogno di formare dei meri esecutori, ma individui capaci di scegliersi la propria strada, persone consapevoli che nella vita si può sbagliare e che questo nulla ha a che vedere con il fallimento (anche personale). Persone che possono costruire qualcosa di proprio.

Il futuro, si dice, è nelle mani dei giovani. Ma chi gliel’ha mai spiegato come tenerlo stretto? Come plasmarlo, immaginarlo, difenderlo?

Il mio invito è a guardarli in faccia, questi ragazzi. A parlarci. C’è sete di conoscenza, di confronto. Basta farsi un giro su TikTok e vedere la natura dei commenti a quei contenuti educativi che danno spazio alla condivisione (sì, ci sono…e se il tuo algoritmo ti propone dell’altro fatti qualche domanda). 

Smettiamo di dare i numeri e di parlarne distrattamente quando capita tra un aperitivo e un altro e cominciamo a valorizzarli e a dargli e darci un ruolo. Perché, se come ho scritto in un altro editoriale, “il futuro è aperto”, è arrivato anche il momento di contribuire a costruirlo. Insieme.

Buona lettura.

Ivan Zorico

Rimaniamo in contatto, su LinkedIn parlo di comunicazione, digitale e crescita personale. Mi trovi quiwww.linkedin.com/in/ivanzorico

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