Chi non conosce il proverbio “meglio soli che male accompagnati?”
Questo proverbio esprime un principio che enfatizza l’importanza della solitudine: ovvero, preferire la solitudine a una compagnia negativa o dannosa. Viene spesso usato per giustificare la scelta di stare soli piuttosto che circondarsi di persone che non portano valore o benessere nella propria vita. La solitudine, per quanto triste possa sembrare, sembrerebbe essere uno stile di vita da considerare se non siamo attorniati da persone che stimolano il nostro benessere psichico o sociale.
Seppur citato da tutti, nei fatti quanto viene considerato veramente?
Nel considerare esperienze personali e non, sembra che le persone preferiscano il “male accompagnati”. Capita a tutti di trovarsi invischiati in relazioni amorose in cui siamo disposti ad accettare ogni atteggiamento dannoso pur di non restare “soli”. Queste relazioni ci mettono al tappeto, il nostro intuito ci urla per farsi ascoltare e ci suggerisce ottime alternative, però a vincere è sempre il “male accompagnati”.
Si accetta ogni comportamento frustrante pur di raggiungere ambizioni lavorative, magari sognate e mai realizzate. “La speranza è l’ultima a morire”, ci diciamo, ma alla fine moriamo noi, pur di non accettare il compromesso di restare “soli” fino a quando non arriva un’opportunità migliore, magari con persone che rendono piacevole anche la tua ambizione. Troppo frustrante l’attesa!
Gli amici, argomento di molte e spese parole.
L’amicizia è importante, il vero amico si vede nel momento del bisogno, trovare un amico è come trovare un tesoro, eccetera…
Alla fine trovi amici che non sopporti, ti creano problemi, ti danno pessimi consigli, ti sorridono e ti criticano appena torni a casa, ti soffiano la ragazza o il ragazzo, svelano tutti i tuoi segreti per avere vantaggi di ogni genere. Ti trascinano in strade contrarie al tuo Io. Infatti, si dice “chi va con lo zoppo impara a zoppicare”: quanta verità in questo detto popolare!
Alla fine, pur di non restare “soli”, si preferisce il “male accompagnati”. E zoppi, aggiungerei.
Però Lucio Dalla diceva: “Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’”. Forse si riferiva proprio a questo: sto male, navigo in cattive acque, però chiamo il mio amico pur di non affrontare tutto da “solo”.
“…e siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò”. Certo, perché la lontananza appiattisce tutto e la positiva fantasia ti fa credere che l’amico non veda l’ora di leggerti e magari risponderti. Gli amici di Lucio Dalla non conoscevano l’era delle spunte. Quante spunte rimaste sospese nel nulla cosmico… però si continua a scrivere a quel “male accompagnato”, invece di preferire la triste solitudine.
Il non rispondere è un diritto, dicono. Vorrei vederli dal vivo se, quando qualcuno gli parla, non rispondono o si girano e vanno via a raggiungere il nulla cosmico.
Eugenio Montale, con la sua poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato”, esprime una visione pessimistica dell’esistenza, dove il dolore e la sofferenza sono elementi inevitabili della vita.
Ma se Montale avesse scritto che c’era la possibilità di elevarsi a questa sofferenza dando spazio alla solitudine, dove la solitudine con il tempo avrebbe dato la soluzione al malessere, e permesso di raggiungere il benessere e quella profonda sensazione del vivere “sano e bello”, ovvero, se avesse mostrato che si poteva arrivare a dire “Spesso la gioia di vivere ho incontrato”, sarebbe stato accettato il “soli”?

“Solitudine” spaventa più di “male accompagnati”.
Per natura non siamo stati creati per stare “soli”, e quella stessa natura ci fa credere che dobbiamo condividere tutto in due, pure quando le persone ci fanno ammuffire, come gli agrumi: perché gli agrumi sono i maestri del “male accompagnati” — fanno ammuffire tutti e ammuffiscono tutti insieme.
Dobbiamo condividere tutto: il malessere, i problemi, le gioie, i segreti, lo stile di vita, le ambizioni, i bisogni, il lavoro, le passeggiate, lo sport, il sesso, l’infedeltà, i valori, le religioni, le bugie, le riflessioni, le critiche, i pettegolezzi, i viaggi, i litigi, il fare pace. Tutto!
Tutte queste cose non si possono fare da “soli”. È triste e svalutante socialmente. Ecco perché vince il “male accompagnati”.
Il “bene accompagnati” è difficile trovarlo, e se lo trovi, col tempo diventerà “male accompagnati”. Se sei fortunato, no!
La solitudine può spaventare per diverse ragioni, molte delle quali legate alla natura sociale dell’essere umano.
Secondo le scienze sociali, la paura della solitudine deriva dal fatto che siamo abituati a vivere in comunità e a trovare conforto nelle relazioni.
Essere soli può far emergere emozioni spiacevoli e costringerci a confrontarci con aspetti di noi stessi che preferiremmo evitare. Meglio scaricare ogni responsabilità sul “male accompagnati”.
Inoltre, la società moderna tende a riempire ogni momento con stimoli e interazioni, lasciando poco spazio alla riflessione e al silenzio.
Questo porta molte persone a percepire la solitudine come un vuoto da colmare, piuttosto che come un’opportunità per la crescita personale.
Alcuni filosofi suggeriscono che dovremmo imparare a gestire la solitudine, trasformandola in un momento di introspezione e consapevolezza.
Coraggio, determinazione, costanza e fiducia nel considerare che “con il tempo tutto si sistema” — o che il tempo possa farci trovare persone più adatte al nostro spirito — sono qualità troppo stancanti.
Vogliamo tutto e subito.
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Si scrive “AI Sycophancy”, si legge compiacimento. Queste macchine accarezzano sempre più il nostro (stupido) ego. Stiamo costruendo un mondo a nostra immagine e somiglianza. E non va affatto bene.
Tutto questo si concentra in particolar modo nelle dipendenze affettive. A quanti è capitato di subire i cosiddetti amori tossici e di sentire l’esigenza di allontanarsi, spinti dall’idea che sia meglio rimanere soli piuttosto che soffrire? E quanti sono davvero riusciti a metterlo in atto?
L’esperienza clinica ci dice che pochi, e soprattutto poche, riescono a farlo. Ci sono donne che vivono da anni condizioni estreme di trascuratezza e maltrattamenti ma, con l’illusione che la situazione possa cambiare, scelgono il “mal accompagnati”. Guai a farlo notare loro: rischiano di allontanarsi da tutti coloro che tentano di offrire un aiuto concreto.
La conseguenza è che, nel “mal accompagnati”, sperimentano una vera solitudine: una relazione che non dà più nulla e un attaccamento a un ideale che non esiste più, o che non è mai esistito se non nelle prime fasi dell’innamoramento.
L’esperienza clinica evidenzia quanto il “meglio soli che male accompagnati” sia solo un’affermazione ideale, più che un vero valore operativo. Le stesse dipendenti affettive, a volte, scelgono persino di abbandonare la terapia, poiché il “meglio soli” (che in quel momento sarebbe davvero l’elemento terapeutico) è vissuto come troppo angoscioso, al punto da preferire la scelta peggiore: il “mal accompagnati”.
Concludiamo con “PER SENTIRE LA GIOIA DEVI CONDIVIDERLA”, spesso attribuita a Mark Twain.
E aggiungiamo: occhio però con chi la condividi!
Arianna Iacobino, già collaboratrice in qualità di articolista per web magazine, è dottoressa in scienze e tecniche psicologiche.