Dopo aver esplorato i risvolti più oscuri di alcuni casi italiani , dal simbolismo esoterico legato al delitto di Chiavenna alla pista “rituale” del caso Garlasco, la nostra inchiesta ha ampliato i suoi orizzonti anche sotto l’aspetto storico.
Oggi, insieme a Cindy Pavan, affrontiamo un versante opposto: quello della costruzione del crimine come mistico, sacro e redentivo, anziché occulto. Parleremo con la criminologa Marianna Cuccuru del caso di Maria Goretti, una vittima di violenza trasformata in simbolo e santità: un omicidio reinterpretato come atto mistico di perdono divino. Morì il 6 luglio 1902, apparentemente perdonando il suo aggressore . Ma secondo alcune fonti, e come suggeriscono storie meno note, la realtà potrebbe essere stata ben diversa.
Stiamo quindi di fronte a un crimine che, al contrario dei delitti “esoterici”, viene mitizzato in forma positiva, rendendo la vittima un’icona di santità. Come è avvenuta questa trasformazione, e chi ha guidato questa narrazione nel tempo?
De Vincentiis/Pavan: dottoressa Cuccuru come già introdotto Maria Goretti è stata celebrata per aver perdonato il suo aggressore sul letto di morte, pronunciando parole come «Per amore di Gesù lo perdono…». Questo atto di misericordia divina ha trasformato una violenza e un omicidio brutale di una bambina in un simbolo sacro. Secondo lei, questo mito “redentivo” ha oscurato la realtà storica dei fatti? E quanto questa idealizzazione teologica ha ridefinito la percezione dell’evento, relegando la giovane vittima un modello di purezza e non a una persona reale che ha subito violenza?
Cuccuru: Ritengo che sia necessario, quando ci si interessa del caso di Maria Goretti, andare oltre la lettura religiosa e cercare di usare uno sguardo più moderno, disincantato ed empatico. Lasciare la giovane e sfortunata Maria nella luce della santità non le rende giustizia in alcun modo, dato che è stata usata per decenni come modello per tante giovani donne, invitate alla continenza e alla sopportazione estrema, così come al perdono di un atto imperdonabile.
Maria Goretti è stata un’oppressa per tutta la vita dalla povertà, dalla malattia, dallo sfruttamento e dall’ignoranza. Ci ricorda un’Italia che non riconosciamo più, ma che esisteva a poco più di cento anni dalla nostra epoca.
Maria fu manipolata e strumentalizzata prima e dopo la morte. Dopo aver subito l’aggressione brutale di Alessandro Serenelli, un tentativo di stupro seguito da un accoltellamento feroce al ventre, al seno, alla schiena e ai genitali, fu sottoposta a una rudimentale operazione chirurgica in pessime condizioni igieniche, ma solo dopo una confessione forzata da parte del cappellano.
Il suo capezzale è stato un campo di battaglia ideologico già mentre la bambina era in fin di vita, sopportando atroci sofferenze. Maria, dopo l’operazione, era con la madre e tre donne che avrebbero dovuto confortarla, consapevoli che sarebbe morta presto. Il dialogo in queste circostanze drammatiche viene riportato dallo scrittore Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un saggio molto documentato sulla vicenda. Guerri racconta che una delle donne avrebbe chiesto a Maria:
“Perdoni all’offensore?” e le disse che era una bambina fortunata, perché aveva la possibilità di morire da martire. La bambina non rispose e la domanda venne fatta più volte, mentre un’altra donna avrebbe affermato perentoriamente: “Se non perdoni, neanche noi saremo perdonati dal signore!”. Un ricatto emotivo fatto a una bambina morente, spaventata e disperata.
Maria, abituata all’obbedienza sempre e comunque, rispose infine:
“Sì, lo perdono e lo voglio con me in paradiso”.
Iniziava in quelle ore la fase di agonia, dove la bambina era sempre meno lucida e consapevole, in cui avrebbe detto frasi come “perdono tutti”. Le sofferenze fisiche erano sempre più insopportabili, senza nemmeno il sollievo di un anestetico, e le venne ricordato che Gesù aveva sofferto molto più di lei sulla croce.
Guerri riporta inoltre che Maria, nonostante il “perdono”, implorò con voce terrorizzata la madre di non far entrare il suo aggressore, Alessandro, per nessun motivo.
Maria Goretti morì alle 15.45 del 6 luglio 1902.
Fin dalle prime ore dopo la sua morte si parlò di miracolo, di questa bambina morta “pura come un giglio”, nonostante le brutture che aveva vissuto.
Senza dubbio Maria era pura come un giglio, ma non per i motivi che ha addotto la Chiesa Cattolica per la sua canonizzazione, ovvero il desiderio di “non peccare” e di preferire la morte al commettere un peccato della carne. Fu perfino esaltato il suo disperato gesto di abbassarsi la gonna che con violenza Serenelli cercò di sollevare o strappare come “pudore virginale” e non come un estremo tentativo di non vedersi umiliata e violata. È probabile che Maria sapesse a malapena cosa fosse la sessualità e in passato era già stata molestata pesantemente da Alessandro. Interpretare il suo comportamento coraggioso e disperato al momento dell’aggressione sessuale e dell’omicidio come un “non voler cedere al peccato della carne” significa attribuire intrinsecamente una responsabilità a qualsiasi donna stuprata che non abbia “preferito la morte” alla violenza, come se questa fosse poi una scelta che la vittima possa fare liberamente.
Questa visione della vicenda sottintende inoltre che sia di gran lunga preferibile una vittima morta ma non violata rispetto a una donna stuprata, ma viva. Quello che Maria ha subito da Serenelli inoltre, secondo il moderno codice penale, sarebbe una violenza sessuale vera e propria, dato che il pene dell’uomo è stato forzato contro il corpo di una bambina minuta e indifesa contro la sua volontà, ma la Chiesa del tempo ha considerato la violenza non avvenuta in quanto non ci fu penetrazione vaginale.
De Vincentiis/Pavan: Il culto per Maria Goretti si diffuse rapidamente tra le classi rurali e il regime fascista ne fece un’icona morale anche per motivi sociali e politici.
In che misura ritiene che la santificazione abbia rappresentato più una costruzione simbolica, utile a rafforzare valori morali o istituzionali, piuttosto che un riconoscimento basato esclusivamente sul valore personale di Maria come vittima?
Cuccuru: Le prime ricostruzioni della vicenda, basate soprattutto sulle testimonianze del Serenelli, sembravano non descrivere una possibile santa: in un primo momento, l’assassino di Maria riporta la frase urlata dalla piccola mentre l’uomo le strusciava contro il pene, tenendola con la forza: “Dio non vuole queste cose! Tu vai all’inferno!”
Le autorità ecclesiastiche hanno forzato un’interpretazione di queste parole in chiave mistica, mentre è più plausibile che quelle frasi fossero la sola difesa che la piccola avrebbe potuto mettere in campo per tentare di far desistere il suo aggressore, basandosi sull’educazione cattolica inculcata fin dalla nascita. La minaccia dell’inferno era un’idea concreta e spaventosa.
Serenelli ha però in seguito testimoniato che, dopo le prime resistenze, vinta dal terrore della morte di fronte a un uomo adulto armato di coltello, avrebbe detto tre volte “sì”. Questo apparentemente piccolo dettaglio inizialmente mise in crisi l’intera ricostruzione della “martire della purezza”: se quel sì si fosse riferito a un possibile “consenso allo stupro” (un concetto evidentemente ossimorico, sarebbe stato lo stesso consenso di una persona che cede il proprio portafoglio davanti a una pistola alla tempia) tutto il racconto del sacrificio della vergine sarebbe stato falso. Nel 1938 Serenelli ritrattò, cosa che fece su numerosi punti della vicenda, affermandosi sicuro che quel sì fosse un rafforzativo della frase “Tu vai all’inferno!” poiché “non accompagnato da altre parole di consenso”.
Il percorso di canonizzazione di Maria è stato, anche per questi aggiustamenti della versione del Serenelli, piuttosto lungo e tormentato, concludendosi solo nel 1950.
De Vincentiis/Pavan: Una parte consistente dell’agiografia enfatizza il silenzio e il perdono di Maria come gesto eroico, paragonabile a quello di Cristo, ma alcune riflessioni critiche, anche contemporanee, suggeriscono che quel silenzio e quel perdono furono piuttosto frutto di condizione sociale, minaccia e ignoranza, non di eroismo consapevole. Secondo lei è davvero un simbolo di virtù, o rischia invece di diventare un modello pericoloso, che induce a vedere come nobili traumi e sofferenze taciute?
Cuccuru: Il tema dello stupro e della psicologia della vittima è un argomento estremamente vasto e delicato. In tutto il mondo e in molte culture, le vittime di stupro hanno avuto ripercussioni pesantissime a seguito dell’abuso, che vanno ben oltre il già enorme trauma subito. Il fatto di attribuire spesso una parte di responsabilità, se non tutta, alla vittima, è un fenomeno secolare e ricorrente, convalidato da storie come quella di Maria. La sua agiografia conferma l’idea che, in qualche modo, ogni vittima potrebbe sottrarsi alla violenza se volesse, cambiando la propria condotta o il proprio aspetto.
Nei casi di stupro, questa mentalità è presente anche al giorno d’oggi. C’è ancora moltissima strada da fare per considerare una vittima di stupro una vittima innocente, che non può avere un “ruolo attivo” nella propria aggressione. Fino al 1996, in Italia lo stupro era un reato contro la morale e non contro la persona, per cui non veniva nemmeno considerato dal punto di vista legale il trauma subito. Anche il matrimonio riparatore, abolito nel 1981, rispetta lo stesso principio: lo stupro è un danno perché priva la donna del suo bene più prezioso, la verginità e l’onore. Ciò limita il suo accesso al matrimonio e quindi alla sicurezza economica. Le nozze con lo stupratore erano considerate il solo modo possibile per salvare la vita futura della donna violata. In termini brutali, allo stupratore veniva proposta una norma simile a “chi rompe paga”, dandogli la possibilità di non fare un giorno di galera e di possedere legalmente la propria vittima. La donna in questione non aveva scelta, almeno fino allo storico caso di Franca Viola del 1965.
La riduzione delle persone di sesso femminile a oggetti, donne o bambine che siano, è quanto mai evidente da questo tipo di leggi, in vigore nel nostro Paese fino a non molto tempo fa. Non è realistico pensare che questa mentalità non abbia lasciato degli strascichi che sono molto evidenti anche oggi (ad esempio, si veda il caso dello stupro di Palermo).
La vicenda di Maria Goretti, tra i tanti fattori socioculturali che causano la colpevolizzazione delle persone stuprate, ha contribuito ad elevare moralmente il comportamento della vittima che subisce in silenzio delle vessazioni, ma che al momento di uno stupro vero e proprio preferisce sacrificare la vita piuttosto che macchiarsi di un simile peccato. Serviva, alla Chiesa e alla cultura italiana, un esempio di cosa fare in un caso del genere: meglio morta che disonorata, come la storia romana della matrona Lucrezia, che si dà la morte dopo essere stata violata dal nobile Sesto Tarquinio.
In nessun momento dell’aggressione Maria Goretti ha però avuto questa possibilità di “scelta”. Il suo silenzio per quanto riguarda le molestie precedenti al delitto è senza dubbio attribuibile alla paura di ritorsioni, alla vergogna, al senso di colpa e di peccato, per qualcosa che capiva essere sbagliato ma a cui non sapeva dare esattamente un nome.
De Vincentiis/Pavan: Nel racconto pubblico, Maria viene rappresentata quasi esclusivamente come “martire della purezza”, senza spazio per le sue paure personali o le dinamiche familiari reali. Anche Serenelli, l’aggressore, è ritratto quasi solo come simbolo di male redento.
Lei ritiene che questo approccio storico e narrativo, che non tiene conto delle singole identità e sfumature umane, possa ingabbiare le vittime e semplificare eccessivamente la complessità psicologica del crimine? Come si può restituire loro voce e dignità storica?
Cuccuru: Senza dubbio Serenelli, a differenza di molti altri criminali che si sono macchiati di simili delitti, ha avuto un percorso di recupero degno di questo nome. A quanto sembra, pur con tutti i suoi limiti e tenendo conto delle manipolazioni e imposizioni delle autorità ecclesiastiche, è stato un uomo che ha sofferto profondamente per il suo gesto, restando in uno stato di confinamento anche dopo la fine della sua pena detentiva. In età avanzata, Serenelli ha attribuito la sua condotta giovanile alla tentazione offerta dal demonio, agli “spettacoli immorali” da evitare a ogni costo. Ad oggi è possibile attribuire il suo comportamento a una feroce esplosione di un ragazzo rifiutato, represso, condizionato da una educazione profondamente sessuofobica. Serenelli ha vissuto la resistenza e il terrore di Maria come una forma di offesa da lavare col sangue. Pare che al momento dell’aggressione non avesse avuto l’erezione, e che anche questo fattore avrebbe influito nella scelta di passare all’aggressione con il coltello, uno sfogo pieno di rabbia e frustrazione, con ferite dal chiaro significato sessuale come i colpi vicino al seno e ai genitali. Maria va ricordata come vittima indifesa e coraggiosa di circostanze terribili, in cui si è trovata senza alcuna colpa, reinterpretata dalla storia per veicolare una giustificazione dello stupro e della cultura del possesso.
La lettura agiografica in tal senso è solo in parte attribuibile a un’epoca in cui la criminologia era agli albori e non era possibile una ricostruzione pienamente consapevole della criminodinamica di quel momento. Il punto della questione, pur senza che allora abbia sminuito la responsabilità del Serenelli, è stata la presenza o meno del “consenso a peccare” di Maria. Solo con uno sguardo privo del velo dell’agiografia e più attento alla realtà del crimine, delle persone coinvolte e del contesto storico è possibile comprendere meglio la vicenda di Maria Goretti e del suo assassino.
Rifermenti Bibliografici:
G. B. Guerri, Povera santa, povero assassino, Milano 2021.
M. Monzani, E. Bertoli, Manuale di vittimologia, Libreria Universitaria, Torino 2016.
M. Monzani, Il modello circolare di vittimizzazione, Key Editore, Milano 2019.
A. Balloni, R. Bisi, R. Sette, Criminologia applicata, Wolters Kluwer, Milano 2021.
Marianna Cuccuru insegna comunicazione criminologica e del delitto seriale presso l’Università dell’Insubria di Varese. Lavora con ex detenuti, donne maltrattate e con famiglie multiproblematiche. Collabora con il Cicap tenendo la rubrica Dietro la porta chiusa-I segreti dei serial killer sulla rivista Queryonline.



