Cosa ci raccontano i fatti di cronaca nera recentemente successi in Italia, dal caso di Yara Gambirasio di Brembate di Sopra a quello di Sara Scazzi di Avetrana, che hanno visto vittime due ragazze poco più che tredicenni?
Sembra che la risposta la si possa trovare nel film “La ragazza nella nebbia”, esordio alla regia del noto scrittore e criminologo pugliese Donato Carrisi. Tratto dal suo omonimo romanzo uscito per i tipi della Loganesi nel 2016, pare che l’idea del soggetto sia venuta a Carrisi mentre, nel 2011, seguiva come esperto ed inviato sul campo il “caso di Avetrana” per conto della trasmissione Matrix di Canale5, come lui stesso affermò in una intervista all’uscita del romanzo.
Il “caso di Avetrana” fu ed è emblematico di come i media, con tutti gli annessi e connessi, possano non solo indirizzare, fare pressione, ma anche e soprattutto complicare ed inquinare un caso di omicidio. Il vespaio mediatico sollevato dal caso di Avetrana, però, fu in un certo senso unico: mai prima di allora si erano viste così marcate e concentrate tutta una serie di situazioni deprecabili, come l’oppressione mediatica andata avanti fino a tutta la durata del processo, la lotta fratricida fra i vari network giornalistici presenti a Taranto, la corsa forsennata alla notorietà dei vari mitomani e da ultimo il curioso ed inquietante caso del turismo dell’orrore.
Il film muove proprio dagli aspetti mediatici di un crimine, che sempre più spesso trasformano un semplice indizio in prova inconfutabile. Il protagonista assoluto è l’agente speciale Vogel, un grandissimo Toni Servillo, che indaga sul caso di scomparsa della giovane Anna Lou (Ekaterina Buscemi) nel piccolo paesino di montagna di Avechot (un luogo immaginario collocato in un posto imprecisato delle Alpi). La caratteristica peculiare dell’agente Vogel è che le sue indagini non tengono in gran conto le prove, ma si contraddistinguono per un uso sapiente e spregiudicato dei media. Vogel riesce a far puntare i riflettori, le telecamere e quindi l’attenzione della nazione su qualunque episodio criminoso sul quale decida di indagare. Il caso della scomparsa di Anna Lou è perfetto a tal proposito, primo perché avvenuto in una piccola comunità, estremamente coesa e morigerata, secondo perché riguarda una ragazzina, terzo perché, come Vogel intuisce fin dal principio, l’orco, il mostro, il sequestratore, forse anche il pedofilo si nasconde, in piena vista, nella stessa comunità.
Senza voler svelare altro sulla trama, possiamo dire che l’esordio alla regia del Carrisi è un film solido, contraddistinto da un’ottima fotografia in pieno stile anni ’70 con i colori tenui, seppiati, slavati quasi, immersi in una scenografia sapiente che mescola oggetti ed atmosfere vintage alla tecnologia più moderna.
L’atmosfera ricreata e ricercata è quella di film che sono diventati classici del genere, come “Il silenzio degli Innocenti” (di Jonathan Demme) e “Seven” (di David Fincher), ma il piglio citazionista del regista attinge pure a serie tv di successo, vecchie e nuove, come Fargo e Twin Peaks. Soprattutto alla serie cult di David Lynch il film del Carrisi pare debitore per la temperatura generale delle atmosfere.
Il cast, ben diretto, ma con alcune recitazioni eccessivamente marcate e didascaliche come il personaggio della conduttrice televisiva Stella Honer (per la quale la straordinaria e talentuosa Galatea Ranzi costruisce un personaggio, a mio avviso, troppo stereotipato), vede, oltre allo stesso Servillo, Alessio Boni in una performance eccezionale e Jean Reno come al solito perfettamente a suo agio in quei ruoli dove la recitazione è contraddistinta magari da poche battute, ma è densa di espressioni e sfumature.
Interessante, ed a mio avviso riuscita, è la trovata di realizzare le panoramiche esterne sul paesino di Avechot utilizzando un plastico stilizzato e per nulla verosimile, che accresce a dismisura la prospettiva aliena e poco rassicurante del luogo dove il dramma di Anna Lou si consuma. In un’intervista rilasciata al bimestrale Vivi il Cinema, Donato Carrisi ha detto che la scelta di utilizzare il plastico per le riprese dei paesaggi era dettata dalla volontà di non permettere una collocazione geografica precisa, e di marcare una voluta finzione. Un posto indefinito e incollocabile: lo scrittore e regista aveva utilizzato questo escamotage già nel suo romanzo di esordio “Il Suggeritore”, forse a sottolineare, e qui viene fuori il criminologo Carrisi, che il male non è mai fuori dai nostri confini, fuori dalle nostre porte, ma anzi sovente divide il pranzo con noi allo stesso tavolo e dorme accanto a noi nel nostro letto.
Cosa altro dire di questo film? Nel primo weekend ha incassato 996 mila euro ma, mentre scrivo questa recensione (2 novembre), grazie al passaparola fra gli spettatori, concorre al box office fra le prime 5 posizioni con i blockbuster americani e si presume possa superare agevolmente i 3 milioni di euro nel primo mese di programmazione.
Ultima nota, tutta personale: nonostante il film mi sia piaciuto, sono convinto che l’esperienza visiva sia stata in un certo senso “compromessa” dalla lettura precedente del libro. Sapevo già la trama, il colpevole, il perché e tutto il resto, insomma, e sono tornato a casa, a fine visione, con l’intenzione di rileggermi il libro per trovare elementi assenti o presenti nella pellicola; sono sicuro, e questo vale per tutti i film tratti da libri ed ancor di più per i gialli e thriller, che se lo siano goduto di più tutti quegli spettatori che non conoscevano il libro e che, è probabile, sono andati poi a comprare e leggere il romanzo.
Quindi mi pare una operazione culturale interessante quella operata dal Carrisi regista (intenzionale o meno che sia), ossia quella di coltivare ed educare alla lettura tutti quegli individui che guardando un film si siano poi appassionati e abbiano acquistato il libro. Un’operazione riuscita a pochi scrittori, raramente italiani, come il fenomeno Dan Brown e il suo Codice da Vinci (2003), che, dopo essere diventato un best seller come libro, all’uscita del film di Ron Howard (2006) è tornato in vetta alle classifiche per la seconda volta.
Ma Ron Howard non era l’autore del libro, non era un regista esordiente, il film era una mega produzione hollywoodiana e il budget a disposizione era molto più ricco, quindi l’operazione di Donato Carrisi è, se possibile, ancora più meritevole.
Attendo con ansia il film sul suo primo romanzo “Il Suggeritore”, e prometto, nell’attesa, di non rileggermi il libro per poter godere appieno di una trama che spero il tempo mi faccia dimenticare, anche se ammetto sarà difficile, visto che all’epoca, 2009, mi colpì come un pugno nello stomaco.