L’intelligenza artificiale non è gratis: il costo nascosto dell’innovazione

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L’intelligenza artificiale non è gratis: il costo nascosto dell’innovazione
Foto realizzata con ChatGPT

Vi state divertendo ad animare vecchie foto, a trasformare gattini in protagonisti di meme irresistibili o a creare fotomontaggi perfetti con un solo click?

Chiedete ogni giorno a un’app di scrivere, disegnare o inventare qualcosa per voi, e in pochi secondi i vostri desideri digitali prendono forma?

La rete ci fa credere che sia tutto gratis, ma non è così: c’è un prezzo da pagare in termini ambientali.

Il prezzo che non paghiamo in denaro, infatti, lo paghiamo in ettolitri d’acqua per raffreddare i server, in megawatt di elettricità per alimentarli e in tonnellate di anidride carbonica che si accumulano nell’atmosfera, gravando sul nostro ecosistema.

Negli ultimi anni, l’Intelligenza Artificiale è diventata il simbolo del progresso tecnologico, una promessa di efficienza e innovazione capace di rivoluzionare ogni settore, dall’industria alla medicina, dall’educazione al marketing, tuttavia dietro questa corsa all’utilizzo dell’IA si nasconde un costo ambientale sempre più evidente, che rischia di impattare negativamente sul Pianeta.

Non ce ne rendiamo conto, ma addestrare un modello di intelligenza artificiale richiede una quantità di energia sorprendente: secondo un’analisi condotta dal Massachusetts Institute of Technology, l’addestramento di GPT-3, uno dei modelli più noti, ha prodotto circa 552 tonnellate di CO₂, l’equivalente delle emissioni generate da 125 automobili in un anno.

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In un momento storico come quello che stiamo vivendo, sempre più importante sarà osservare, studiare e approfondire cosa c’è dietro per capire come procedere in avanti. Andare alla fonte, laddove tutto inizia.

Si tratta di un dato che mette in luce la sproporzione tra la leggerezza apparente di un output digitale e la pesantezza reale del suo impatto ambientale e che deve farci riflettere sull’eventualità e sull’opportunità del suo utilizzo.

Come ricorda Greenpeace Italia, “i sistemi di IA non sono eterei, ma poggiano su un’infrastruttura materiale fatta di data center, cavi, processori e fonti energetiche”. Questi centri dati, che ospitano server in funzione 24 ore su 24, consumano enormi quantità di elettricità e, soprattutto, di acqua. I sistemi di raffreddamento necessari per mantenere la temperatura ottimale dei processori richiedono milioni di litri d’acqua al giorno.

Un’inchiesta di The Guardian ha rivelato che solo i data center di Google negli Stati Uniti hanno utilizzato quasi 20 miliardi di litri d’acqua nel 2022, un consumo che potrebbe alimentare per un anno intere città di medie dimensioni.

L’impatto dell’IA non si limita al consumo diretto di energia, ma ad influire è l’intera filiera tecnologica — dall’estrazione dei minerali rari necessari alla produzione dei chip fino allo smaltimento delle apparecchiature obsolete — che contribuisce in modo significativo all’inquinamento e alla perdita di biodiversità. Secondo uno studio dell’Università di Firenze, l’impronta ecologica del digitale cresce a un ritmo del 9% l’anno, con l’IA come principale fattore di accelerazione.

L’IA, così come oggi viene sviluppata e utilizzata, amplifica il problema della dipendenza dalle fonti fossili perché i data center che alimentano l’economia dell’intelligenza artificiale si concentrano in Paesi dove l’energia rinnovabile è ancora minoritaria nel mix energetico, come gli Stati Uniti e la Cina; questo significa che gran parte dell’elettricità impiegata proviene ancora da carbone e gas naturale.

Di fronte a questi dati impressionanti, cosa fare?

In un primo momento, ci verrebbe da pensare che la soluzione migliore potrebbe essere non utilizzare più le varie AI per limitarne l’impatto ambientale, ma sappiamo bene che il progresso tecnologico non si può arrestare.

L’intelligenza artificiale non è di per sé dannosa, anzi, ogni giorno ci aiuta ed assolve brillantemente molti compiti ma, come ogni cosa, bisognerebbe utilizzarla con moderazione e, visto il suo impatto sull’ambiente, bisognerebbe chiedersi se sia il caso di abusarne.

Ma davvero non c’è nulla da fare, e l’unica soluzione è non utilizzare l’AI?

Alcuni ricercatori stanno sperimentando modelli più efficienti e sistemi di green computing capaci di ridurre drasticamente i consumi.

Secondo l’Università di Stanford, algoritmi di nuova generazione e hardware ottimizzati potrebbero tagliare del 40% le emissioni di CO₂ legate ai processi di addestramento. Parallelamente, cresce l’interesse per i data center alimentati esclusivamente da energie rinnovabili, come quelli sperimentali installati nei Paesi nordici, dove il clima più freddo riduce la necessità di sistemi di raffreddamento.

Ma la vera sfida non è solo tecnologica: è anche culturale e politica.

Qualsiasi innovazione non può essere considerata sostenibile se non integra sin dall’origine criteri ambientali e sociali, per questo servirebbe più consapevolezza da parte degli utenti e una governance globale che incentivi la ricerca di soluzioni a basso impatto.

E per chi si occupa di marketing, comunicazione e impresa, la sfida è ancora più ardua: usare l’IA non significa solo cavalcare l’innovazione, ma anche scegliere come farlo.

Dobbiamo essere consapevoli che ogni brand, ogni campagna, ogni contenuto generato artificialmente comporta un’impronta ambientale che non possiamo più ignorare.

È tempo che la creatività digitale diventi anche sostenibile, che l’efficienza si accompagni alla responsabilità e che le strategie di comunicazione si misurino non solo in clic e conversioni, ma anche in sostenibilità e impatto positivo.

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